Uriah Heep - Salisbury :: Le Pietre Miliari di OndaRock (2024)

Quando si parla dell'hard rock britannico, subito viene in mente il triangolo sacro composto da Deep Purple, Led Zeppelin e Black Sabbath. Se però si trattasse di un quadrilatero, non c'è dubbio che il posto libero lo occuperebbero gli Uriah Heep.
Con una ventina di milioni di Lp venduti in carriera non possono impensierire i riscontri commerciali dei tre cugini, ma sono l'unica altra band dell'ambito che abbia ottenuto cifre importanti, costruito una carriera duratura, e influenzato palesem*nte formazioni venute in seguito.
Nonostante all'epoca la critica li abbia fatti a brandelli (negli Usa qualcuno li apostrofò come peggiore band del mondo), oggi i loro quattro dischi pubblicati nel biennio 1971-72 sono ritenuti classici dell'hard rock e, di sbieco, anche del rock progressivo.

Non è celebrato quanto "Demons And Wizards", non possiede il devastante muro di suono di "Look At Yourself", non ha una copertina iconica come quella di "The Magician's Birthday", griffata Roger Dean, tuttavia "Salisbury" è il più eclettico dei quattro e, grazie alla suite omonima, senz'altro il più ambizioso. Essendo inoltre il primo della serie, rappresenta il momento in cui il progetto raggiunse stabilità e maturità.
La fase iniziale fu infatti piuttosto tribolata. Ben dieci mesi, con due cambi di formazione nel mezzo, per registrare l'album di debutto "Very 'Eavy Very 'Umble" (1970). Alla fine, pur con la visionaria eccezione di "Gypsy", si risolse in un disco hard blues non particolarmente brillante e fiaccato da un paio di brani del tutto fuori contesto quali la tardo-psichedelica "Wake Up" e la cover di Harry Belafonte "Come Away Melinda" (di cui diedero una resa da Moody Blues dei poveri).
Ciò che fece fare un balzo in avanti alla band fu l'ingresso di Ken Hensley, in veste di tastierista, secondo chitarrista e occasionale cantante. Alto, allampanato, coi capelli lunghissimi, non ancora somigliante a un nativo americano come oggi, Hensley entrò in formazione all'età di ventiquattro anni e con già un paio di album alle spalle in qualità di membro dei Gods, simpatico gruppo psichedelico che ancora oggi attira la curiosità di qualche appassionato.

Hensley partecipò alle sessioni di "Very 'Eavy Very 'Umble", ma i brani erano tutti già pronti e si limitò a suonare quanto scritto dai compagni. Per "Salisbury" ebbe invece tempo di proporre il suo materiale, che venne accolto con entusiasmo. Da quel momento, fino al 1980, sarebbe rimasto l'autore principale, benché mai tirannico e sempre disponibile a lasciare spazio agli altri.
Dopo il suo abbandono, gli Heep non avrebbero più scritto una sola canzone memorabile, ma come accade spesso in quelle squadre in cui il risultato supera la somma delle parti, bisogna precisare che il sostegno creativo fu reciproco. Con i Gods infatti Hensley non aveva mostrato chissà quali capacità, e dopo aver lasciato gli Heep si è sostanzialmente spento.

Quell'equilibrio magico prese per l'appunto forma con "Salisbury". Le registrazioni durarono poco più di un mese, a testimonianza del clima eccitato e della consapevolezza dei ragazzi di potersi ritagliare un posto importante nella musica dell'epoca.
Nel febbraio del 1971 l'album era nei negozi e il retrocopertina ne salutava il nuovo assetto: David Byron (voce solista), Ken Hensley (organo, piano, chitarra slide e acustica, clavicembalo, vibrafono, voce), Mick Box (chitarra elettrica e acustica, voce), Paul Newton (basso, voce), Keith Baker (batteria).
Se l'elenco degli strumenti vi appare insolitamente lungo per una band hard rock, considerate che a questi va aggiunta l'orchestra di ventiquattro elementi presente nella suite. In effetti, anche se all'epoca il confine fra hard rock e prog era piuttosto malleabile, la simbiosi di questi solchi è di una sapienza rara. Senza uscire dai confini di Albione, probabilmente solo "It'll All Work Out In Boomland" dei T2 e "Argus" dei Wishbone Ash hanno toccato vette paragonabili.

"Salisbury" si apre con "Bird Of Prey", in realtà già edita nell'estate dell'anno prima, come b-side di "Gypsy", e nel frattempo diventata un cavallo di battaglia dal vivo. Per essere del 1970, l'impianto è sconvolgente. Non solo per l'unisono eretto dall'organo distorto di Hensley e dalla chitarra satura di Box, quanto di più duro si fosse udito fino a quel momento, ma anche per l'arrangiamento vocale, con Byron a sovraincidere una serie di acuti dai toni operistici, sfidando il comune senso della misura. Il prodotto finito è talmente aggressivo che sembra più metal che hard rock. Iron Maiden, Judas Priest e Rainbow suonano quasi come variazioni di questa micidiale cavalcata.
L'altro elemento che salta all'orecchio è la cura per il dettaglio. Dopo la strofa compaiono degli archi riprodotti al Mellotron. Sepolti nel mix dalle note sostenute della chitarra, riempiono tuttavia ogni spazio vuoto. Danno corpo all'arrangiamento, ma quasi non si nota che ci siano. Lo stesso vale per l'organo che, durante la strofa, divaga in sottofondo staccandosi dalla chitarra, per poi riagguantarla sul culminare del riff. Sembra tutto così naturale che quasi non si fa caso alla struttura anomala del brano. C'è in pratica solo la strofa, il ritornello è stato sostituito da un tratto strumentale che sembra più un bridge, benché segnato da acuti vocali astratti. Il trucco si ripete una sola volta, poi la canzone muta completamente e va incontro a un precoce fade out.

Messa volutamente come seconda pista, per creare contrasto, "The Park" è una delicatissima ballata, un cortocircuito che manda a braccetto jazz, folk e musica del periodo barocco, sorretta dal clavicembalo e dai prolungati rintocchi del vibrafono. Byron, anche qui canto e controcanto, mantiene tonalità altissime, ma è questa volta carezzevole e rassicurante. Il tono, a un passo dall'inno religioso, aderisce perfettamente alla descrizione di un parco, la cui naturale bellezza non riesce tuttavia a portare sollievo nell'animo di chi ha perso un fratello in guerra.
La fissazione di Box per il wah wah esplode a tutto tondo nell'assolo che apre "Time To Live", hard rock cadenzato e canonico, ma non per questo da sottovalutare, anzi la sua solidità monolitica, dopo due pezzi tanto atipici, suona quasi rassicurante.

Il primo lato del vinile è chiuso in gloria dal motivo più famoso degli Heep, "Lady In Black". La ballata è un perfetto esempio di come anche una composizione semplice – nello specifico appena un paio di accordi– possa risultare elaborata con le dovute accortezze in fase di arrangiamento e produzione. È buffo pensare che Byron non compaia nell'inno della band, ma il cantante disse espressamente di non trovarci molto di valido. Gli altri vollero comunque registrarla a tutti i costi, affidando proprio a Hensley la parte vocale.
I colpi distantissimi della batteria, le chitarre acustiche che si intrecciano (inizia una, arrivano a contarsene quattro) e quella elettrica che rimpolpa la cadenza in sottofondo, gli archi del Mellotron questa volta ben udibili, il pianoforte che entra sepolto nel mix per poi emergere prepotente nel finale, il momento in cui gli altri strumenti scompaiono per lasciare spazio alla pulsazione del basso, l'impossibilità di identificare il numero preciso di voci che cantano in contemporanea, tutte costantemente effettate e posizionate in maniera strategica, e ovviamente il ritornello corale, senza parole, a metà fra gospel e canto gregoriano.
"Lady In Black" non è però solo un momento di sublime artigianato pop, è anche un riuscito manifesto contro la guerra. Il protagonista incontra un'entità sovrannaturale con le sembianze di una donna, e dopo una sofferta discussione riconquista la speranza che aveva perso a causa dei lunghi combattimenti e della distruzione cui aveva assistito (e che in parte aveva causato).

"High Priestess", che inaugura il secondo lato, è un geniale hard boogie dall'atmosfera spaziale, tutto giocato sul contrasto fra il torrenziale dinamismo delle chitarre e la staticità dell'organo elettrico, placido e liturgico. I cori operistici di Byron vanno e vengono come folate di vento, mentre Box si scatena in un lungo assolo.
Concludono i sedici minuti della title track, definitivo momento prog degli Heep, il loro brano più lungo e stratificato di sempre. Un universo deflagra al suo interno, dalla jam jazz-rock più frenetica alla reiterazione più ipnotica, dalla canzone più raffinata all'assolo più selvatico, dalla scansione funk più asciutta al boogie psichedelico più delirante, mentre il basso di Newton sembra voler fornire materiale di studio ai futuri produttori trip hop.
L'orchestra è arrangiata da John Fiddy, compositore di library music e apprezzato turnista, che pesca in questo caso a piene mani dalla tradizione latina (dal paso doble ai mariachi). Lo scelse il produttore Gerry Bron, figura importante per la riuscita dell'album, perfetto contraltare pratico allo spirito irrequieto e musicalmente onnivoro di Hensley, nonché abile tecnico che aveva già messo mano a classici del rock quali "Gorilla" della Bonzo Dog Doo-Dah Band e "Valentyne Suite" dei Colosseum.

"Salisbury" non fu un successo immediato. Dovette accontentarsi di dignitose vendite da sottobosco in Germania, Australia e Stati Uniti (dove si fermò al numero 103), mentre nel Regno Unito passò del tutto inosservato. Solo due nazioni lo presero sul serio, spedendolo in top 10: la Finlandia e l'Italia (uno dei tanti exploit dello stivale nell'epoca del rock progressivo).
Si tratta tuttavia di uno di quei casi in cui il passare del tempo ha accresciuto la fama del disco, sia sull'onda del botto commerciale che avrebbe interessato la band a partire dal 1972, sia grazie al passaparola generazionale presso gli appassionati del rock più duro. "Lady In Black" sarebbe poi diventata immortale nel 1977, quando una riedizione su 45 giri la spedì ai piani alti delle classifiche nei paesi di lingua tedesca.

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Author: Mr. See Jast

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